Cosa vedi?

Cosa vedi?

Io cosa vedo di me?

E tu cosa vedi, che io..non vedo?

E io cosa so di me e cosa faccio che non voglio o posso farti vedere?

Ci sono cose che sappiamo di noi, che vediamo e riconosciamo; altre che invece sono più facilmente riconoscibili dall’esterno, da amici, affetti, colleghi.  Sfaccettature del nostro carattere che hanno bisogno per essere messe più a fuoco di essere nutrite da un feedback gentile e affettuoso proveniente da voci esterne.

Poi ci sono zone del nostro carattere quasi totalmente invisibili a noi e all’esterno. Si tende in questi casi a parlare di zone inconsce che per essere investigate necessitano di brevi o lunghe discese nel profondo, generalmente supportate da bravi professionisti dell’ascolto delle nostre parole, del nostro corpo, del nostro cuore. 

Ma esistono anche zone cieche di noi. Cieche al mondo della professione. Parti di noi che specialmente all’interno dei luoghi del lavoro non si possono far vedere troppo. Ci convincono ( e spesso ci convinciamo pure noi) che devono rimanere “private”, che non sono interessanti rispetto agli obiettivi del lavoro e dunque che devono rimanere recintate, separate, preferibilmente cieche…escluse.

Uno dei drammi della nostra epoca “lavorativa” è proprio questa separazione, la cesura spesso praticata e alimentata tra ciò che faccio e che sono nella vita privata e ciò che faccio e mi viene richiesto di essere nella vita professionale.

Le maschere che indossiamo nella vita possono esserci estremamente utili. Ci aiutano ad essere riconosciuti, ad avere un biglietto da visita, a fornirci un’identità immediata verso l’esterno. Ci sono necessarie per fare esperienze diverse, ci fanno conoscere chi siamo e cosa ci piace e non ci piace. Ci aiutano a mettere a fuoco la nostra identità più profonda.

Il problema sorge quando queste maschere risultano un po’ troppo strette, quando diventano delle vere e proprie barriere, degli impedimenti per scoprire e mettere in luce il nostro potenziale, i talenti, la nostra vocazione.

La rivista Harvard Business Review già nel 2005 esponeva i dati di una ricerca sul coinvolgimento in attività extra-lavorative dei manager di una grande multinazionale europea con sedi in tutto il mondo. Dall’indagine emergeva che molti dirigenti appartenenti a minoranze etniche o impiegati nelle sedi all’estero dell’azienda erano attivamente impegnati in programmi sociali di sviluppo di vario tipo all’interno delle loro comunità di provenienza. Erano dei veri e propri mentor e tutor al servizio di comunità religiose, di volontariato in scuole, chiese e altri centri di aggregazione sociale. In questi contesti esercitavano attitudini e talenti totalmente invisibili all’interno degli uffici della loro azienda; applicavano competenze non riconosciute “in ufficio” e di conseguenza impossibili da trasferire e sviluppare ulteriormente nell’ambiente di lavoro.

Spesso quello che ci appassiona o occupa nella vita rimane completamente nascosto o invisibile sul lavoro.

Spesso lo vogliamo proprio noi ; preferiamo affannarci a “non mettere un po’insieme” attitudini e attività private con i ruoli professionali. Mantenendo dunque le due sfere “non comunicanti” e continuando a proteggere le nostre zone cieche sul posto di lavoro.

Abbiamo paura che esporci troppo possa mettere in discussione stereotipi, non farci riconoscere più nel modello predominante con il rischio di venire esclusi, di essere emarginati.

“ Se parlo di me, di quello che sono e faccio fuori poi pensano che non sono abbastanza motivata, il mio stile è completamente diverso ma in ufficio devo indossare una maschera..altrimenti se mi scopro e mi apro troppo non mi riconoscono più e poi fare carriera e crescere qui diventa impossibile. Qui il modello di leadership prevalente è più di tipo maschile; fatto di miti, regole e riti precisi”.

Ma questo genera fatica.

A cosa serve continuare a parlare di sviluppo del potenziale delle proprie persone dentro le aziende  se preferiamo continuare a “non vedere”, se non facciamo domande gentili e disinteressate, se non vogliamo conoscere chi abbiamo davanti a noi?

I programmi di inclusione della diversità hanno bisogno di nutrirsi del potenziale umano. Un potenziale che troppo spesso vive in zone cieche, invisibili nei luoghi di lavoro. Zone dove si ritrovano competenze e attitudini essenziali per creare un business più abbondante e sostenibile.

Dentro la nostra vita “cosiddetta privata” abitano tante soft skills. Abilità legate all’intelligenza emotiva, alla capacità di rischiare e di prendere decisioni e iniziative, di saper ascoltare, di gestire al meglio il tempo,  di essere presenti, pazienti, forti e resilienti.

Tutto potenziale che viene sprecato perché non si vuole vedere.  Non si vuole autorizzare!

C’è una potenza che risiede nel privato che sul lavoro va sprecata, rimane inutilizzata. Una potenza che deriva dalle nostre attività  di cura, di relazione, come genitori, volontari e leader in altre comunità e gruppi sociali o sportivi, come figli di genitori anziani. E dunque autorizziamoci e autorizziamo chi è accanto a noi ad aprirsi, a raccontarsi. Mettiamo in gioco questa potenza in modo più visibile nei ruoli professionali, nei disegni e nelle strategie organizzative.

Per generare una nuova abbondanza nell’economia e sul lavoro sarà sempre più necessario saper attingere a questo potenziale nascosto di ogni persona. Saper vedere l’altro, invitarlo – se lo desidera- a farsi vedere, a farsi conoscere meglio.

Aprire le zone cieche potrebbe scatenare travasi di energie sostenibili e di entusiasmo dalla vita al lavoro…e viceversa. Un entusiasmo indispensabile per dare reale concretezza a  produttività, efficacia, sostenibilità, responsabilità, leadership, team. Parole e concetti ripetuti come mantra negli uffici.

Mantra che abbiamo bisogno di sostenere e nutrire, anche a partire dalla nostra vita.

Skills

Posted on

February 13, 2018