“Obiettivo” è senza dubbio una parola che nella mia vita professionale di coach mi trovo continuamente ad incontrare. A cosa serve infatti un coach? Serve proprio a realizzare gli obiettivi che vorremmo raggiungere.
L’obiettivo parte da due presupposti:
a) si vive per obiettivi.. se non hai obiettivi ti devi preoccupare
b) si devono sempre avere tante cose da fare, dobbiamo essere sempre incredibilmente impegnati.
Il rovescio della medaglia della creazione continua di obiettivi è che ci creano stress. Anche se in realtà si tratta di uno stress spesso molto subliminale.
L’obiettivo si insinua continuamente nelle nostre vite anche quando non ne siamo consapevoli… e così ci porta a spingere, a portare l’asticella sempre più in alto e ad accumulare stress perché non è mai abbastanza: c’è sempre un’altra cosa da fare o da raggiungere dietro l’angolo.
L’esito possibile è la frustrazione, soprattutto se il raggiungimento dell’obiettivo si rivela un fallimento. Subentra poi, oltre alla fatica fisica e allo stress, anche il giudizio negativo che possiamo elaborare su noi stessi, sulle nostre capacità.
Frustrazione, senso di inadeguatezza, spinta continua nel dover fare di più: ecco cosa può portare con sé la ricerca “ossessiva” di raggiungimento di un obiettivo.
È interessante osservare che quando ci prefiggiamo un obiettivo tendiamo ad illuminare solo il punto d’arrivo. Non illuminiamo il percorso necessario per raggiungere la meta, ma ci concentriamo solo sulla meta stessa.
Proviamo a spostare l’occhio di bue sul processo e a notare la bellezza del percorsoche stiamo facendo. La preziosità e le scoperte che ci sono “in between”, nel mezzo del cammino.
Se ci focalizziamo solo sul raggiungimento dell’obiettivo rischiamo di non vedere e cogliere tutte le sfumature, le possibilità, le scoperte, che si presentano nel percorso, nei passi che facciamo tutti i giorni per costruire qualcosa che ci interessa. Rischiamo di escludere a priori tutto ciò che il caso ci propone e che potrebbe farci incontrare qualcosa di più ricco, visionario, importante, più adeguato e giusto per noi o per l’organizzazione di cui facciamo parte. E magari anche completamente differente da come lo avevamo immaginato.
Proviamo a riflettere sulla parola “intenzione”.
Il dizionario della Treccani ci dice che è un orientamento della coscienza verso il compimento di un’azione. È una direzione della volontà verso un determinato fine. È implicito un orientamento e una direzione della volontà. La cosa veramente interessante è che dentro alla parola “intenzione” non c’è una volontà deterministica, non c’è quella determinazione, non ci sono quei paletti molto precisi che invece la parola “obiettivo” porta con sè. A volte la parola “Intenzione”, nell’intercalare più comune, è legata anche a dei risvolti più rinunciatari (“la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”). Tante intenzioni e buoni propositi che non sono seguiti da fatti concreti.
Personalmente trovo la parola “intenzione” un parola ancora poco usata- in particolare nel business- eppure incredibilmente ricca.
L’intenzione emerge dal cuore. Indica un orientamento, una direzione della volontà. “Avere un’intenzione” significa avere sì un senso di direzione, un senso di volontà, ma essere al contempo aperti, pronti ad accogliere cosa capiterà durante il percorso affinché poi si definisca concretamente il dove arrivare, il cosa fare.
Quando manifesto un’intenzione c’è già una bellezza, una pienezza. Quando esplicito un’intenzione l’ho in parte già interiormente raggiunta e non comunico, come faccio con l’obiettivo, solo una mancanza di qualcosa.
Mentre quando dico: “abbiamo l’obiettivo di arrivare lì”, sono già un po’ frustrato perché significa che quella cosa non ce l’ho, non la posseggo, ci devo ancora arrivare, e la strada è spesso lunga e tediosa.
D’altra parte, se dico: “ho intenzione di rendere questo posto di lavoro un posto di lavoro più interessante”, sento che questa cosa è già in parte costruita, è già a portata di mano. È come se mi sentissi già completo e ci sia già una bellezza in questa mia manifestazione. Diciamo che c’è una gentilezza nell’esplicitare le intenzioni, che gli obiettivi non ci consentono invece di percepire. Gli obiettivi sono molto aggressivi, mentre l’intenzione è più gentile, più intima, in un certo senso più concreta e sensata.
È come se l’obiettivo parlasse più di numeri mentre l’intenzione parlasse più di attitudini. L’obiettivo mette l’ego al centro, mentre l’intenzione accantona l’ego e mette in circolo anche una gentilezza, una calma che fa sì che si realizzi ciò veramente serve.
Quindi, l’intenzione fa anche un altro lavoro molto bello: non crea frustrazione e soprattutto ci allontana dalle ricette uguali per tutti, dalla convinzione -errata- che ci possa essere un solo modo per arrivare alla meta finale e una sola possibile meta.
A volte sembra che solo seguendo una certa strada si possa raggiungere un certo obiettivo. Eppure così facendo escludiamo automaticamente tutta quella bellezza che nasce e cresce dall’incontro inaspettato con gli altri, dagli eventi e dal caso, dalla forza dell’intuizione e dalla conoscenza profonda che arriva direttamente dal cuore.